Krishnamurti ovvero della spontaneità creativa

krishnajiC’è un filo sottile che divide l’essere inserito in un certo tipo di cammino o tradizione  spirituale dall’identificazione assoluta con le forme di tale tradizione che è sempre un modo sottile ma pervicace di attaccamento.

Così come c’è lo stesso filo sottile tra l’avere un insegnante che ti è guida e ispirazione e l’essere psicologicamente dipendente da qualcuno senza il quale ritieni di non poter essere autosufficiente, umanamente o spiritualmente.

Lo scopo del sentiero spirituale è quello dell’autonomia, appunto della “liberazione”, e ogni slittamento in direzione della dipendenza, dell’attaccamento a nomi, forme e rituali non fa certamente parte dell’autentica crescita ed è lontano anni luce dallo spirito del Dharma.

La stessa cosa dicasi delle credenze e delle visioni del mondo. Se ci costruiamo visioni e credenze solidificandole, facendone il nostro guscio o anche il punto di riferimento e di sicurezza spirituale, ebbene non stiamo andando in direzione della maturazione e della capacità di autonomia.

A volte è proprio l’appartenenza  a un gruppo, a una scuola, a una tradizione, che finisce con il determinare quella chiusura che è l’anticamera del ristagno spirituale, della semplice imitazione passiva di modelli, della non-responsabilità, del settarismo… e chi più ne ha ne metta.

La dipendenza e l’identificazione sono nemiche dell’autonomia e della creatività e sono armature che ci impediscono di accedere alla nostra vera natura. Senza prendere su di noi la responsabilità e il peso del sentiero saremo condannati a restare perpetuamente degli studenti, dei dilettanti inoriginali dello spirito.

2)

Krishnamurti ritiene che ogni forma di religione, ogni dipendenza da un guru, ogni fossilizzazione entro un credo, una ideologia, una visione, sia fondata essenzialmente sulla paura e sul bisogno di sicurezza. Ma se ci si costruisce un guscio per sfuggire a qualcosa e sentirsi così al sicuro, non si potrà mai veramente accedere a quella trasformazione essenziale che sola ci rende liberi.

Si potrebbe certamente obiettare che tale prospettiva lascerebbe l’individuo completamente a se stesso, senza quei punti di riferimento che le tradizioni e le forme culturali possono assicurare, senza quei supporti e strumenti  indispensabili per intraprendere e proseguire una via spirituale di cambiamento.

Ma forse non è questo il punto. Il rifiuto di ogni tradizione, religione, credo e guru non va estremizzato. Il punto è che una cosa possono essere i riferimenti entro cui nasciamo, ci troviamo e/o scegliamo per noi, un’altra non riuscire a trascenderli in alcun modo, ovvero restarne mentalmente prigionieri dall’interno, in modo acritico e passivo e lasciare che essi dirigano dal di fuori la nostra esistenza.

Il discorso di Krishnamurti, la sua posizione nei confronti di ogni auctoritas , possono essere estremamente proficui se li assumiamo in presenza di una organizzazione di cui facciamo parte, di un maestro che seguiamo, insomma di qualsiasi organismo o persona entro cui poniamo la nostra vita. Perché allora quel discorso diventa liberatorio, seme critico che ci consente di non stare più passivamente o bambinescamente entro qualcosa, dietro qualcuno, ma un modo per esserci da adulti, autonomamente, liberamente, e prendere su di noi (arriva sempre questo momento – DEVE arrivare pena la putrefazione) la responsabilità e il peso della nostra stessa trasformazione.

3)

L’approccio di Krishnamurti è notevole in quanto si muove entro due prospettive che si saldano tra loro, il ché conferisce al suo discorso una completezza e una efficacia senza uguali, dal punto di vista della storia e delle visioni degli illuminati.

Unico fra i maestri spirituali del passato e del presente, egli pone la teoria e la pratica dell’illuminazione entro le opposte prospettive della società e dell’individuo, della politica e della consapevolezza personale, mostrandone la reciproca complementarietà.

Ogni idea in cui si “condensa” il nostro pensiero è infatti il presupposto e il risultato dell’azione pratica. Da un lato le idee mobilitano all’azione, dall’altro si formano in conseguenza di una nostra riflessione sull’esperienza fatta. Nella loro dinamica esse inevitabilmente generano divisione e conflitto. Sia nei confronti di chi le elabora, sia nelle relazioni fra persone, gruppi, società.

Le idee che ci facciamo su noi stessi ci spingono continuamente a realizzare un’identità che esprima quel che dovremmo essere. Ma tale identità è per lo più frutto di una ricezione passiva e mimetica dei modelli sociali via via egemoni, ai quali l’individuo finisce con l’adeguarsi.

In questo modo non ci si accetta per quello che realmente siamo e tale non-accettazione, unitamente allo sforzo per diventare “qualcun altro”, ingenera immancabilmente tensione e conflitto, il ché comporta infelicità e inautenticità e dunque sofferenza.

L’idealizzazione offerta dal modello si salda con la dinamica del desiderio, è tutt’uno con essa. L’individuo prigioniero di tale dinamica non può davvero liberarsi se non accetta se stesso come egli è attualmente, con tutti i suoi limiti e condizionamenti. E la tensione al domani propria di tale processo, sacrifica immancabilmente l’oggi, il presente, entro cui soltanto la vera trasformazione può verificarsi.

Certamente sul piano sociale le idee possono condurre alla realizzazione di nuove forme di organizzazione, ma poi queste ultime finiscono ben presto con l’irrigidirsi in strutture che a loro volta determinano comportamenti e valori puramente mimetici e conformisti.

Affidarsi dunque a una auctoritas esterna per superare l’entropia di tale circolo vizioso rappresenta solo l’ennesima delle illusioni: ogni ideologia, ogni religione, ogni persona a cui deleghiamo i nostri sforzi per migliorare noi e il mondo, serve solo a consegnare la nostra confusione e le nostre paure al bisogno di sicurezza, che è l’altro versante del conflitto perenne in cui siamo immessi.

Per dare slancio continuamente rinnovato a noi stessi e alla società senza essere preda delle identità divisorie che fondano il conflitto e la reificazione, unica strada indicata da Krishnamurti è la consapevolezza autentica di noi stessi.

In sostanza è la via spirituale che Krishnamurti addita per costruire una società che non sia più fondata sul conflitto, sulla paura e sul conformismo, ma sull’accettazione di noi stessi, attraverso la dinamica della trasparenza consapevole, condotta dentro il flusso quotidiano del continuo mutare e venire a galla dei nostri condizionamenti.

Sottinteso di tutto questo  discorso è la creatività, intesa però non come quella capacità di invenzione (poetica, letteraria, filosofica, tecnica) che è propria del talento individuale, ma come stato della mente vuoto di pregiudizi, concetti e conseguentemente di quelle dinamiche che ci consegnano alla paura, rendendoci continuamente dipendenti e infelici.

Si tratta di uno stato creativo in quanto libero, spontaneo, che come tale va sperimentato direttamente, meditazione continua in azione che manifesta in sé una energia che non ristagna né si esaurisce, ma rinasce attimo per attimo.

Questa energia è della profonda consapevolezza, della mente che ha fatto tacere il pensiero discorsivo e discorrrente, di quel tipo di mente che non reagisce più compulsivamente ai suoi contenuti,  realizzando in tal modo la piena fusione con la sua emotività.

E’ in definitiva la mente-cuore che supera la mente astratta e che ci dà la possibilità di entrare in empatia con il prossimo e il mondo intero, in una accettazione senza riserve che è amore.

Colui che ha bandito ogni forma di sicurezza esteriore e ogni identificazione nei nomi e nelle forme è un essere liberato, centrato nell’amore.

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Come si può evincere, l’analisi di Krishnamurti, la sua diagnosi così come la terapia che indica, è la stessa di quella fornita dal Dharma. C’è una mente non-illuminata che produce confusione, dipendenza e infelicità, e che dunque va trasformata. Motore di questa trasformazione è la consapevolezza, ossia un nuovo modo di vivere la presenza.

Tale consapevolezza è il risultato di uno stare con se stessi, con i propri pensieri ed emozioni, che sia attento, vigile e intimamente non giudicante.

Uno stato di meditazione continua, nella relazione (con se stessi e con gli altri), che non si appoggi ultimamente a nomi e forme, una meditazione cioè senza visione, senza presupposti logici, teoretici o religiosi.

Qui Krishnamurti, con una provocazione che è tipica degli anni in cui visse, ci dice quel che da sempre il Dharma afferma:

1) Ogni visione che fonda il sentiero di liberazione è relativa e strumentale, semplicemente propedeutica. Allorché si accende la scintilla della realizzazione, essa va abbandonata senza indugio sulla riva delle imbarcazioni inservibili.

2) Il nucleo umanamente sperimentabile della cosiddetta “illuminazione” è il raggiungimento di uno stato spontaneo, creativo, aperto e nutrito di profondo e indiscriminato amore. Tale stato può essere solo il prodotto di una trasformazione individuale, personale. Nessuno può illuminarsi per conto di qualcun altro o attendersi da un altro tale trasformazione.

Questo è ciò che ci racconta anche la vicenda del Buddha storico.

Le altre questioni o rappresentazioni sono solo concomitanze e stratificazioni storico-culturali. Bisogna dunque saper ben distinguere.

Krishnamurti ci aiuta a farlo con impareggiabile lucidità e dedizione.

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