Anima come ego in Oriente – III

Se in Occidente l’anima veniva nel suo punto più alto ad identificarsi con il nucleo immediato, intuitivo e dunque non-duale che è sotteso alle operazioni conoscitive umane, in Oriente si visse un’intenso travaglio culturale sul senso del sé (o atman) identificato con l’anima individuale.

Qui non possiamo ripercorrere la battaglia socio-culturale che si scatenò tra i sostenitori dell’atman o sé (per lo più appartenenti a coloro che ponevano nei testi sacri dei Veda la trasmissione e la rivelazione delle fondamentali verità metafisiche) ed i sostenitori dell’anatman o non-sé quali furono il Buddha e i suoi seguaci.

Partiremo invece proprio da questi ultimi per continuare il nostro discorso, sia perché il buddismo rappresentò per l’Oriente una vera e propria rivoluzione paragonabile solo al Cristianesimo in Occidente, sia in quanto esso fu capace di elaborare una filosofia raffinata e una psicologia profonda.

Mentre dunque in Occidente l’anima gettava le sue fondamenta nel processo ideale della razionalità umana, in Oriente lo stesso processo viene ad essere fortemente svalutato e bollato come matrice stessa dell’illusione.

Sia ben chiaro, in Platone c’è una chiara gerarchia di modalità conoscitive, per cui i concetti della ordinaria funzione logica possono essere unificati ed elaborati secondo una scala che va dal molteplice all’unitario e dunque la conoscenza stessa da una molteplicità duale a una immediatezza unitaria, presente a livello delle idee nel loro punto più alto, laddove il Vero ed il Bene si uniscono nella sintesi suprema.

Ma in Occidente, più che di preoccuparsi di verificare la illusorietà delle cognizioni dualistiche abituali, se ne saggia la loro capacità anche tecnica di produrre conoscenza, tanto che fu proprio Platone l’antesignano della moderna visione scientifica del mondo.

Semplificando forse eccessivamente potremmo dire che mentre in Occidente la razionalità umana è vista come una bottiglia per metà piena che deve essere colmata, in Oriente essa è considerata dal punto di vista della bottiglia immancabilmente mezzo vuota, che solo dopo essere stata svuotata del tutto può immetterci nel vero modo di essere delle cose.

Il fatto è che per il buddismo l’anima si identifica ultimamente con l’ego e a sua volta l’ego è il prodotto di quella conoscenza mezzo vuota e illusoria di cui si diceva, per cui la radice dell’illusione viene alla fine a sostanziarsi proprio nell’ego.

Esiste l’anima per il buddismo? No di certo se per “esistenza” intendiamo qualcosa di eterno ed esistente in se stesso in quanto il senso del sé è illusorio sia negli esseri che nelle cose.

Ed esiste l’ego? No certamente in senso assoluto, ma relativamente esiste eccome, anzi… per il buddismo esso non solo è il principio dei nostri mali, della nostra confusione, ma costituisce addirittura quella radice che ci fa rinascere continuamente nel mondo condizionato o samsara.

Occorre tuttavia precisare ancora: se l’anima viene definita dall’ego, potremmo dire che essa è forse identica al principio razionale con cui noi identifichiamo noi stessi e gli altri, ossia all’io come principio logico ed autocosciente?

No, in senso assoluto, perché per il buddismo tale io è completamente inesistente, rappresentando quell’errore cognitivo, risultato delle operazioni dualistiche della nostra mente, mentre l’ego è la fissazione dell’io in se tesso, una sorta di autoriferimento e autoattaccamento continuo.

Dunque l’anima non è qui il principio logico (auto)cosciente, ma solo quel grumo di energie che si sente come “sé” e a questo sé riconduce e riduce tutte le sue operazioni immediate.

(continua)

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